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UNA META PER LA STORIA

De Carli
L'ex pilone e tecnico della mischia azzurra, Giampiero De Carli, ricorda la prima marcatura nel torneo Sei Nazioni, che ha portato alla vittoria inaugurale sulla Scozia nel 2000.

E' il 5 febbraio del 2000 e allo Stadio Flaminio di Roma va in scena un momento storico per il rugby mondiale: la prima partita del neonato torneo Sei Nazioni che, grazie soprattutto alle prestazioni degli anni precedenti, ha accolto l'inserimento dell'Italia.

Avversario di turno non uno qualsiasi, ma la Scozia, ultima vincitrice nel 1999 del torneo Cinque Nazioni.

Ad aprire le danze e a marcare i primi punti della nuova kermesse, un certo Gregor Townsend con un drop al 18'. Gli Azzurri dalla loro hanno, però, Diego Dominguez, che al termine del match sarà autore di ben 29 punti complessivi tra calci piazzati e tre drop.

L'Italia entra nei minuti finali avanti 27-13, ma c'è ancora tempo per un po' di gloria con la prima meta azzurra della manifestazione.

Serie di progressioni con gli avanti e a sfondare è un pilone trentenne in forza allo Stade Francais, che ha esordito in nazionale nel 1996 con Georges Coste in un test contro il Galles, e che, da romano, si toglie la soddisfazione davanti al "suo" pubblico: Giampiero De Carli.

"Poter ricordare quella meta è sempre qualcosa di bello, anche se ogni volta più lontano nel tempo - scherza l'oggi tecnico di difesa e mischia del Cus Torino in serie A, che punta ad un pronto ritorno nell'elite dopo la retrocessione dello scorso anno -. E' una meta che ho segnato fisicamente io, ma che appartiene a tutta una squadra che stava cercando di modificare il nostro mondo, per il nostro movimento che stava cambiando. Giocavamo in un Flaminio lontano dai grandi numeri e con molti tifosi ospiti e per noi fu come una sorta di taglio di un traguardo. Ed era il momento che ci faceva vivere sensazioni incredibili, forse per assurdo più che la partita, ricordo con emozione intensa tutto quello che l'ha preceduta. Molti giocatori prima di noi avevano faticato tanto, ma non avevano avuto l'onore di giocare un torneo del genere, era un po' una storia che se la immaginavi pensavi non si potesse realizzare. E' vero che noi giocavamo quasi sempre la partita di pausa del torneo, ma qui il contesto era ben diverso e più grande, entravamo in un mondo incredibile che ci avrebbe dato sensazioni gratificanti".

Senza contare che l'avversario, la Scozia, era campione in carica, quindi match tutt'altro che semplice, anche se era già stata sconfitta negli anni precedenti a Treviso.

"Veniva appunto una Scozia che aveva vinto l'ultimo Cinque Nazioni e noi non immaginavamo nulla, pensavamo soltanto a giocare la partita come se fosse l'ultima, per far capire chi eravamo veramente. Anche oggi la storia del rugby italiano va avanti, certo con difficoltà, ma pure con cose straordinarie, pensiamo alla gara in Francia, magari è un piccolo passo per qualcuno, ma credo faccia vivere in molti le stesse emozioni. La strada per noi è spesso stata durissima, ma noi italiani, tutti quelli che lavorano per questo movimento, facciamo cose davvero straordinarie. Altre discipline sportive si avvicinano per impatto generale a quelle di altre nazioni,per noi invece è completamente diverso. Chi è fuori da questo ambiente spesso non se ne rende conto, ma quanto fatto a Lille è qualcosa di clamoroso, considerando le differenze tra i due mondi in Italia e Francia. Poi per me la Scozia rappresenta allo stesso tempo una formazione che ha segnato diversi momenti importanti. Se penso alla mia storia da allenatore, nel Sei Nazioni, ho vinto solo contro la Scozia nel 2015, con quella meta tecnica nel finale".

Nel 2021 l'addio al gruppo della nazionale che per sette anni è stato il suo quotidiano e oggi si riparte con un nuovo staff tecnico, anche se per molte parti rimane lo stesso e arriveranno più avanti eventuali variazioni volute dal nuovo commissario tecnico Gonzalo Quesada.

"Non conosco Quesada personalmente, quindi non posso esprimere alcun giudizio dal punto di vista, per così dire, umano. So che è un allenatore giovane, ma comunque esperto e penso sia pure molto schietto, viste anche le dichiarazioni che aveva fatto pochi giorni prima della trasferta oltralpe e mi piace che poi abbia voluto dare una risposta sul campo. Ha una dialettica che mi sembra corretta e una storia che parla da sola. Mi sembra si sia subito immerso nella nostra cultura ed è significativo che parli già bene la lingua. Certo si potrebbe dire che è più semplice per un latino, ma penso sia più semplice quando ti metti con la motivazione di dover e voler studiare. Credo sia comunque una buona figura per il rugby italiano e va considerato il fatto che se riuscirà a migliorare il percorso, probabilmente miglioreremo tutti quanti, tutti possiamo avere un beneficio reale se la nazionale va bene, dalle franchigie alle squadre di serie C. Se qualcuno riesce a fare questo, ben venga, e spero possa avere la forza di dare quello sprint in più all'Italia".

A sentire le parole di De Carli non traspare alcun rammarico o delusione per aver lasciato la nazionale.

"Considero la mia esperienza con l'Italia come una parte meravigliosa della mia vita, sia da giocatore che da allenatore. Credo di essere stato fortunato e di averlo un po' anche meritato. Stare lì, vestire quella maglia, per me significa essere coinvolti al 100% e poi è normale e naturale come in tutti gli aspetti della vita che arrivi il momento di lasciare. Un po' di delusione potrà anche esserci stata, ma sono contento di dove sono ora e del lavoro che stiamo impostando, e allo steso tempo credo che l'Italia abbia bisogno di persone capaci e non parlo solo di giocatori, che posso assicurare hanno un carattere straordinario. Quando è arrivato il nuovo presidente, ha voluto giustamente apportare delle modifiche nella conduzione e spesso io, in casi del genere, mi pongo la domanda di cosa avrei fatto nei panni dell'altra persona. Non dico di essere stato contento di dover lasciare la nazionale, ma ho capito. Avevo altre possibilità e alla fine ho deciso per Torino, la Federazione stessa è stata molto corretta nei miei confronti proponendomi altri ruoli, io non ho accettato non per arroganza o altro, ma semplicemente perché penso che, come in una storia d'amore, quando le cose finiscono sia meglio provare situazioni diverse. Oggi sono molto contento e ho soddisfazioni incredibili nel lavoro che portiamo avanti con i giovani assieme a Lucas D'Angelo. Lo sento persino paradossalmente come un miglioramento del nostro lavoro di allenatori, perché in queste categorie spesso puoi provare a fare cose che difficilmente puoi tentare nell'alto livello".

Tornando all'attualità del torneo Sei Nazioni, l'Italia vista contro la Francia ha dato prova di grande carattere, soffrendo una maggior fisicità francese in mischia, dove c'era una differenza di oltre 100 chilogrammi, praticamente un uomo in più, ma quasi ribaltando la situazione nel secondo tempo.

"Ci sono secondo me alcuni punti fondamentali nella prestazione di Lille. In primis, l'Italia ha sofferto nel primo tempo, ma è naturale e assolutamente comprensibile, quello che è stata brava a fare è stato il soffrire senza naufragare. Qualche dubbio si è insinuato nella Francia, si veda quando hanno fatto cinque cambi di fila, e pensavano di fare cose diverse. E poi la difesa va considerata in maniera differente, nel suo insieme. Molti la vedono come quanti punti prendi, quanti placcaggi sbagli, ma non è tutto qui. Devi considerare quanti palloni hai in attacco, quanti ne ha il tuo avversario e in quali zone del campo, è tutto legato e varia in base al sistema di gioco di chi hai davanti, sta nel come e dove lo fai giocare: questa è l'identità della difesa. Negli anni scorsi la difesa italiana era spesso, per così dire, soffocata dagli attacchi avversari ed eravamo costretti a rimanere nella nostra metà campo, oggi non è così. Non sento da un po', e mi dispiace di questo, Marius Goosen, ma credo gli vada dato merito di essere un ottimo allenatore e un lavoratore molto bravo. Nella prestazione contro la Francia meritano tutti un plauso e forse lui un qualcosa di più".

Il prossimo avversario non è più, però, la Scozia che l'Italia batteva quasi sempre ad anni alterni e contro cui sono arrivate in totale sette affermazioni nel Championship.

"E' una Scozia cresciuta e anche molto, che ha saputo soprattutto allargare e creare una base importante di giocatori. Un po' come da noi Treviso, in Scozia è Glasgow a dare il maggior numero di giocatori, una squadra in salute e che porta ad una migliore conoscenza tra gli atleti stessi. E' una nazionale che gioca con grande confidenza e ben allenata, ma è sempre stata una squadra dura da affrontare, pure quando attraversava momenti difficili. Oggi come oggi, mi viene da dire che questa è la migliore Scozia di sempre, la più completa, con tanti talenti importanti. L'Italia dovrà provare a ripetere la prestazione vista contro la Francia, rimanendo attaccata nel punteggio e allora a quel punto potremmo diventare pericolosi, perché abbiamo giocatori che non si perdono mai d'animo".

In definitiva, cos'è il Sei Nazioni per Giampiero De Carli, l'autore della prima meta azzurra nel torneo?

"E' una domanda che non è complessa, perché la risposta è quella che darebbe il bambino Giampiero che aspettava davanti alla televisione le telecronache di Paolo Rosi e che sognava un giorno di poter giocare quelle partite. Prima di arrivare al Sei Nazioni, forse vivevamo momenti più frustranti. Ricordo ad esempio un test che giocammo contro la Scozia a Rieti e loro non vollero riconoscere il cap ufficiale ai giocatori scesi in campo. Dopo la vittoria sulla Francia nel 1997 e poi quelle contro Irlanda e Scozia, invece, la considerazione era diversa e maggiore. Giocavi quelle partite e c'era chi più vecchio temeva di non riuscire a vedere il momento dell'entrata nel torneo, mentre i più giovani ci speravano di continuo. Il Sei Nazioni è un sogno diventato realtà e ogni volta è così, anche se magari ne giochi dieci".