Warren Gatland è il capo allenatore di una nazionale in cui il rugby attira le attenzioni come nient'altro. Per il sessantunenne originario della Nuova Zelanda, sono già arrivati i migliori allori possibili, vincendo sia il Sei Nazioni che il Grande Slam, ma ora si trova a dover affrontare uno dei momenti più bui, con 13 sconfitte consecutive.
Quanto è dura riuscire a tenere la mente sgombra dalla pesantezza dell'opinione pubblica?
"Penso che sia il bello di questo sport, cioè che ognuno abbia una sua opinione" - risponde Gatland con il sorriso di un uomo che sembra aver visto di peggio.
L'ex tallonatore di Hamilton è stata una figura di peso all'interno del Sei Nazioni sin dal primo titolo conquistato con il Galles nel 2008 (in precedenza tra il 1998 e il 2001 aveva allenato anche l'Irlanda). E non è quindi una sorpresa che il torneo abbia un posto speciale nel suo cuore.
"Il Sei Nazioni ispira le persone, la storia, la passione che porta con sè - dice -. È più di un gioco: è un’occasione. Lo adoro come torneo. È incredibilmente difficile vincere, ci vuole un po’ di fortuna, il rimbalzo della palla, la decisione di andare per la propria strada. Penso che sia incredibile avere l’opportunità di far parte del Sei Nazioni”.
Gatland si rifà a qualcosa detto dall'icona del rugby inglese Martin Johnson, che prese le redini del suo Paese due anni dopo il suo ritiro da giocatore.
"Martin ha fatto un commento su come non potesse credere a quanto il gioco fosse cambiato nel periodo in cui era stato via - ricorda Gatland -. Quando si tratta di tenere il passo con i cambiamenti nel gioco, bisogna vederla in un altro modo: a volte si tratta di essere proattivi piuttosto che reattivi.
Devi ricordarti che fai parte di uno sport e che ciò rientra tra i divertimenti per i tifosi. Quindi cerchi di trovare un equilibrio tra il giocare in un certo modo, ma anche il comprendere che devi essere intelligente nel modo in cui lo fai, e a volte ciò può significare calciare un po' di più o fare alcune cose sul piano tattico che magari sono più conservative, perché alla fine di tutto conta solo il risultato".
Il rugby made in Waikato ha reso Warren Gatland il giocatore, e sono stati i suoi mentori a fare di Warren Gatland l'allenatore. Forse le sue descrizioni danno qualche idea sui suoi metodi oggi.
"Uno è stato il mio primo allenatore nel rugby a XV, un ragazzo chiamato Glenn Ross, che ha allenato nell'emisfero settentrionale con Northampton e anche con Connacht - dice Gatland, che ha preso il posto di Ross come allenatore di quest'ultimo club -. Quello che ho imparato da lui è stata la sua struttura e organizzazione, e il modo in cui si preparava e pianificava le cose.
Con gli All Blacks, c'è stato Alex Wyllie, un uomo duro e che non scendeva a compromessi. Spingeva fino al limite più estremo. La gente non si rende conto di quanto ci allenavamo duramente in quel periodo con la Nuova Zelanda. Era incredibile quanto fossero tosti certe volte i tour a quel tempo. Persino le giornate prima di un match non erano certo come i captain's run attuali, ma più tipo un'ora e mezza di allenamento. Ecco quanto era dura.
E poi un altro allenatore a Waikato, Kevin Greene. Anche lui era stato coinvolto con gli All Blacks. Ciò che ammiravo in lui era la capacità di gestire le persone e riuscire a tirar fuori il meglio da ciascuno. Sapeva creare un ambiente davvero positivo. Queste sono le tre persone che hanno avuto per me un impatto significativo".
Per quanto gli piaccia vedere un giocatore trasformarsi in un “animale da test match”, Gatland trae anche gratificazione nel vederli crescere come uomini. Ecco una sua riflessione sulle figure che ha portato avanti, come Sam Warburton, uno dei grandi di tutti i tempi per il Galles e per i British & Irish Lions.
“Oggi guardo giocatori un po’ simili: Jac Morgan, Dewi Lake, anche Dafydd Jenkins. Il fatto è che abbiamo in questo caso tre non solo grandi giocatori di rugby – che diventeranno giocatori di rugby eccezionali in futuro – ma tre uomini di qualità.
Per quanto riguarda l'esempio che hanno dato, sono semplicemente brave persone. Questo per me significa che c’è l’opportunità di costruire una squadra attorno a loro; per loro di stabilire standard e fissare aspettative da un punto di vista di leadership. Sam (Warburton) è cresciuto moltissimo in quel ruolo. Senza dubbio era un professionista incredibile nel modo in cui si preparava, si formava e guidava attraverso l'esempio.
Sam non si è sbraitato, non si è entusiasmato e non ha detto molto, ma è stato sicuramente guidato dalle sue azioni ed è diventato incredibilmente rispettato. Penso che abbiamo un gruppo di giovani capaci di fare la stessa cosa”.
La speranza per questa squadra del Galles è che il suo nucleo di giovani giocatori possa affrontare la sfida di Roma questo fine settimana, rompendo un ciclo che li ha perseguitati dall’ultima volta che hanno assaporato la vittoria nel novembre 2023.
Facendolo, forse, potranno iniziare a costruire un futuro più luminoso, togliendosi un grosso peso dalle spalle.
Italia-Galles, sabato 8 febbraio, ore 15:15 CEST, Stadio Olimpico di Roma.